La fiera di San Giuseppe ha sempre goduto di un fascino particolare per lo spettacolo che ogni volta propone: le strade della città si animano della folla di curiosi che si muovono tra una bancarella e l’altra; i profumi delle leccornie dolci e salate attraggono grandi e piccini smuovendo l’appetito anche dei meno ingordi; intanto la primavera inizia prepotente a far capolino come a voler spazzar via d’un tratto i rigori invernali. Per la città di Tivoli la fiera di San Giuseppe è sempre stata un momento importante, un appuntamento al quale non si può mancare.
Quest’anno la fiera non si svolgerà e non potremo gironzolare tra banchetti e bancarelle alla ricerca dell’affare imperdibile o dell’immancabile panino farcito con la porchetta da addentare tra un abbraccio e un saluto. L’emergenza Coronavirus non permette, come è ovvio, lo svolgimento della fiera ma non impedisce di raccontare e condividere la storia di questa irrinunciabile tradizione.
Per spiegare l’origine della fiera di San Giuseppe bisogna iniziare citando una delibera votata dal Consiglio comunale di Tivoli nel lontano 1736. È con questo atto che il falegname di Nazareth, patrono degli artigiani e dei mutilati e invalidi del lavoro, venne eletto a protettore della città. A quel tempo, però, la festa del Santo si celebrava il 21 di luglio e la fiera era ancora lontana dall’essere istituita. Sarà papa Pio IX a spostare la celebrazione di San Giuseppe al 19 di marzo con un decreto del 1870 in cui lo dichiara anche patrono della Chiesa Cattolica. L’idea di dar vita a una mercato di merci e bestiame nel giorno della celebrazione dell’allora patrono della città – come è noto San Giuseppe avrebbe poi ceduto il “posto” a San Lorenzo – non è però legata né alla volontà del clero né tantomeno a un’intuizione dell’amministrazione comunale, furono infatti i cittadini a chiedere a gran voce l’istituzione di una fiera in onore del Santo. Nel mese di gennaio del 1895, infatti, alcuni tiburtini si fecero promotori di una petizione, spinti dalla necessità di rianimare l’attività del commercio locale in un momento particolarmente difficile dal punto di vista economico. Il Consiglio comunale, nella seduta del 2 febbraio dello stesso anno, deliberò favorevolmente all’unanimità dei presenti la proposta e il 19 marzo del 1895 si allestì la prima fiera. Bisogna sottolineare che a Tivoli esisteva già una fiera simile, istituita nella forma moderna nel 1850 (le origini senza dubbio sono assai più antiche) e dedicata alla martire tiburtina Santa Sinforosa, morta con i suoi figli nel 137 d.C. durante il principato di Adriano e molto venerata in città. La fiera di Santa Sinforosa, che durava due giorni, si svolgeva nel mese di luglio; fino al 1939 questo “appuntamento” compariva ancora nell’elenco ufficiale delle fiere e dei mercati, poi decadde. Votato l’atto che istituiva la nuova fiera dedicata a San Giuseppe si diede subito avvio all’organizzazione dell’evento. Non si potevano aver dubbi sulla data, le giornate di mercato vennero fissate però a tre estendendo le “celebrazioni” anche al 20 e al 21 di marzo. Il luogo prescelto per allestire i banchi per le merci e far spazio al mercato del bestiame è l’area che si estendeva, al tempo pressoché vuota, tra la Rocca Pia e il tratto di strada che conduceva alla porta Santa Croce: il cosiddetto “prato” San Giovanni. La fiera si svolgeva, dunque, fuori le mura della città per consentire la presenza dei numerosissimi venditori: una vasta rappresentanza di artigiani e commercianti di ogni categoria. Grande fu il successo dell’evento che ebbe un’eco significativa anche nei paesi limitrofi, richiamando venditori e curiosi persino da Roma. La fiera non si limitava soltanto alla vendita di merci e bestiame, essa infatti prevedeva manifestazioni collegate e persino l’istituzione di una lotteria che poteva vantare anche premi inviati per l’occasione da Sua Maestà il Re d’Italia Umberto I e dall’Imperatore di Germania Guglielmo II.
La fortuna della prima edizione si replicò nelle successive conferendo a questo evento un fascino particolare e trasformandolo in un appuntamento irrinunciabile. Fino agli anni Settanta la fiera ha continuato a svolgersi nell’area iniziale conquistando però man mano terreno fino ad arrivare a occupare via Colsereno, l’intera area oggi impegnata dal parcheggio di piazzale Matteotti e il tratto iniziale della via Empolitana, così come quello di via Acquaregna. Proprio per far fronte alla “crescita” della fiera, nel 1973 essa venne trasferita per la prima volta nel centro storico, invadendo la quasi totalità delle vie cittadine. Alla fine degli anni Ottanta si registra un altro epocale cambiamento: l’amministrazione comunale vietò nella giornata della fiera la vendita del bestiame. È questa una decisione che, sebbene rispecchi chiaramente la diversa sensibilità delle “moderne” generazioni, segna in modo palese il ruolo specifico che la fiera ancora ricopriva nell’economia locale, in buona parte contadina, nei decenni precedenti. Nonostante il rinnovamento economico e sociale la fiera è stata in grado di adeguarsi al cambiamento, mantenendo la vivacità e l’energia delle origini, sia in termini di giro d’affari che per l’aspetto folclorico. Negli anni Novanta la fiera cambia di nuovo sede stabilendosi per un triennio nell’area decentrata del cimitero, presso il piazzale Saragat. Una scelta che non dovette riscuotere molto successo poiché già nel 1994 i banchi tornano ad occupare il cuore della città, accolti nuovamente lungo le vie del centro storico. Nel corso degli ultimi anni la fiera di San Giuseppe ha avuto alterne fortune cedendo, in alcuni casi, alla banalità del mercato; in altre occasioni, invece, si è vestita a festa proponendosi come revival della fiera originale e associando al commercio il valore floclorico di cui il tempo la ha ammantata attraverso la realizzazione di iniziative culturali. Quest’anno la fiera non ci sarà, l’augurio però è che questo appuntamento, l’anno prossimo, possa rinnovare i propositi dei primi promotori; ci piace immaginare la “fiera che verrà” come una delle tante opportunità per rissolevarci dopo un periodo difficile a cui si può porre fine soltanto con il contributo, piccolo o grandi, di ognuno di noi.
a cura di Valeria Roggi